Gli africani siamo noi by Guido Barbujani

Gli africani siamo noi by Guido Barbujani

autore:Guido Barbujani [Barbujani, Guido]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Festival della Mente
pubblicato: 2016-08-29T21:00:00+00:00


8.

Ann Arbor, 1962

Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, è considerato il fondatore dell’antropologia. A metà del Settecento aggiunge due razze alle quattro di Linneo: lapponi e tartari. Fra i naturalisti dell’epoca che si cimentano con lo studio delle razze umane, Buffon è l’unico non creazionista, anche se la sua idea che la comparsa e l’estinzione degli organismi siano il prodotto di una serie di cataclismi oggi ci sembra molto ingenua.

Invece per Georges Cuvier, considerato il padre dell’anatomia comparata, autore del Règne animal distribué d’après son organisation (1817), di razze ne bastano tre: bianchi, neri, gialli. Cuvier propone anche una definizione di razza che suona già moderna, «certe peculiarità osservabili ed ereditarie di conformazione». Meno competente in materia, Immanuel Kant nel 1775 aveva proposto un sistema a quattro razze, però diverse da quelle di Linneo: bianchi, neri, calmucchi e industani. E, come si evince da una sua spericolata affermazione, il filosofo tedesco si fa un po’ prendere la mano: «Gli indiani hanno scarso talento. I neri stanno molto sotto di loro, e nel punto più basso quelli che vivono in America».

Un sistema di classificazione di grande successo viene proposto alla fine del Settecento da Johann Friedrich Blumenbach. Laureatosi in Medicina all’Università di Göttingen, aggiornerà a più riprese la sua tesi intitolata De generis humani varietate nativa liber (‘Libro sulla varietà naturale del genere umano’), ampliando e studiando la collezione di crani dell’Università.

Blumenbach non può fare a meno di notare che esistono già parecchi schemi di classificazione razziale, per l’esattezza dodici. Fra di essi, il più sorprendente è quello proposto da un suo collega di Göttingen, Christoph Meiners che, poco amante delle complicazioni, divide l’umanità in brutti (neri) e belli (bianchi), indicando come esempio dei secondi i celti, i sarmati e i popoli dell’Oriente. Blumenbach non la vede esattamente come Meiners, ma anche per lui il principale criterio di classificazione è estetico: i bianchi, coi loro volti ovali e i capelli castani, si conformano a un ideale assoluto di bellezza, ben rappresentato dalle statue dell’antichità classica. Le altre razze (i cui confini, ammette Blumenbach, non sono ben definiti) sarebbero derivate dai bianchi per un processo di degenerazione; e siccome a suo giudizio il cranio più bello di tutta la collezione è appartenuto a una donna del Caucaso, georgiana, si inventa la parola «caucasici» per definire gli abitanti dell’Europa (eccetto i lapponi), del Nord Africa e dell’Asia occidentale.

A Blumenbach serve un numero dispari di razze perché ipotizza una degenerazione simmetrica e bilaterale, causata forse dall’esposizione solare e dalla dieta; perciò propone che, via via degenerando, dai caucasici siano derivati da un lato gli indiani d’America e poi gli asiatici, con facce sempre più piatte; dall’altro, con mascelle sempre più prominenti, gli australiani, che lui chiama malesi, e da questi i più brutti di tutti, gli africani, che lui chiama etiopi. Occorre aggiungere che i giudizi negativi su asiatici e africani si limitano al loro aspetto fisico; illuminista e monogenista convinto, Blumenbach mette in chiaro che secondo lui non ci sono gerarchie di valore fra le razze.



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